lunedì 30 aprile 2007

Disokkupati! Bugie e verità, trappole e soluzioni di un fenomeno dilagante

Mai argomento è stato come questo il principe delle discussioni da bar, quanto l'oggetto degli studi più seri di economia, sociologia e ultimamente anche di psicologia; ha ispirato film di successo, come Full Monty, ed ha reso agitate le notti di tanti politici, in Italia e nel mondo. È la disoccupazione. Un fenomeno complesso, dalle mille sfaccettature, nel quale é difficile capirci qualcosa, anche perché tanti sono i luoghi comuni e le inesattezze e perché nella giostra di numeri ed indagini che ci vengono propinati, è davvero difficile orientarsi. Nulla di strano però: ai numeri si può far dire ciò che si vuole, tanto più che su un tema come la disoccupazione in Italia si decide se si vincono o si perdono le elezioni!

Bufale‘s party
Prima fra tutte le bufale è quella che vuole che la disoccupazione come un fenomeno contemporaneo, quasi una sorta di effetto collaterale della tanto abusata “globalizzazione”. In realtà, in Occidente, esiste almeno da 300 anni su larga scala, mentre, come fenomeno circoscritto alle città, è ancora più antica. Proprio la presenza di lavoratori in esubero ha consentito l’innestarsi di fenomeni importantissimi nella nostra storia, come l’inizio della Rivoluzione Industriale o la nascita ( e poi la caduta) del Fascismo e del Nazismo.

Guardare al passato però non ci consola più di tanto. Può essere più utile vedere come se la cavano i nostri cugini in Eurolandia e nel resto del mondo. La media mondiale dei disoccupati si aggira intorno al 6%, si tratta però di una stima estremamente imprecisa, alla quale affiancare la constatazione che, in molte zone del mondo, l’idea di un posto di lavoro come l’abbiamo noi è assolutamente sconosciuta. Più preciso è il dato della disoccupazione in Europa: 9%, che in valore assoluto equivale ad un esercito di 35 milioni di persone in tutta l’area.

Lo “stipendio” per chi non ha lavoro
Come in ogni buona famiglia, ci sono sempre i più virtuosi. I Paesi scandinavi infatti, Svezia, Norvegia e Danimarca, non vanno oltre il 4%. Altri invece, come la Francia, che ha un tasso di disoccupazione più consistente, cerca di venire incontro alle esigenze soprattutto degli “inoccupati”, ossia quei giovani che non hanno ancora trovato il primo lavoro. A tutti loro, infatti, lo Stato garantisce un salario minimo di poco meno di 400 euro, che si può percepire a prescindere da tutto. Basta vivere in Francia, non avere lavoro, avere meno di 27 anni ed avere un conto corrente, su cui la cifra viene versata. Questa specie di “salario di entrata” è disponibile anche per i cittadini dell’UE, tant’è che è diffusa la pratica di molti studenti Italiani o Spagnoli che scelgono di partecipare al progetto Erasmus in Francia e, durante quell’anno di studio, percepiscono regolarmente il gettito. Non è una scelta scellerata, poiché, oltre alla Francia, sono altri i Paesi che hanno scelto questa via, fra i quali l’Olanda ed i già citati Paesi scandinavi. Fare i furbi- cioè fare qualche lavoretto e prendere anche il salario sociale- non è possibile, poiché quasi nessun lavoro si fa in nero e ogni contratto di lavoro implica la sospensione, salvo poi poter beneficiare di altre soluzioni se si viene licenziati. Quest’idea di “salario d’entrata “ o “salario minimo d’ingresso” comincia a circolare anche da noi: in neo- eletto governatore della Puglia, Nichi Vendola, ha infatti intenzione di prenderlo seriamente in considerazione. Naturalmente non è tutto oro quel che luccica: se i 400 euro francesi non sono poi così lontani dallo stipendio, ad esempio, di un nostro lavoratore socialmente utile, a Parigi non bastano per affittare una stanza in un appartamento nell’estrema periferia della città!

Ricchezza = disoccupazione?

Il “salario minimo d’ingresso” è una soluzione per allentare la tensione sociale, alla cui base c’è l’idea di distribuire meglio la ricchezza, a favore di chi è più sfortunato; non c’è dubbio che i nuovi poveri siano proprio quelli che non trovano lavoro! La ricchezza media dei Paesi sviluppati cresce costantemente, non cresce però il numero dei posti disponibili. Come mai? La ragione è presto detta. Nel suo ultimo rapporto annuale, lOrganizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) ha mostrato come stia aumentando la “produttività” degli occupati (più del 4% solo lo scorso anno), cioè, per fare la stessa quantità di lavoro, sono necessarie sempre meno persone, perché grazie alle macchine si fa più in fretta e si fa sempre meglio. Quindi sempre più persone sono espulse dal sistema produttivo perché non c’è più necessità di loro. Tale tendenza, iniziata nell’Ottocento, sembra destinata a permanere, finché continuerà il progresso tecnologico. E c’è da scommettere che continuerà…! Prendersela con le macchine è abbastanza ingenuo. Quando il Inghilterra si diffusero le prime macchine a vapore, i lavoratori, che perdevano il posto, presero a distruggerle a bastonate – si chiamavano Luddisti- perché erano la faccia misteriosa del diavolo! Se avessero avuto ragione i Luddisti, ora saremmo fermi poco più avanti del Medioevo!

Non mancano le voci di chi sostiene che, produttività del lavoro e nuove tecnologie a parte, la disoccupazione è necessaria a sostenere il nostro sistema economico; quindi i governanti delle nazioni più ricche, d’accordo con la grandi multinazionali, sarebbero d’accordo a conservare una bella fetta di senza- lavoro. Una prospettiva piuttosto allarmante, ma che spiegherebbe come mai, a fronte di molte migliaia di persone che si impoveriscono, la ricchezza globale (quella concentrata nelle mani di pochi ) cresce comunque.

Quantità e qualità

Che ce ne sia poco ormai lo abbiamo capito, resta da vedere di che specie è quello rimasto; detto in un altro modo significa chiedersi com’è la “nuova disoccupazione” nell’era della flessibilità. Per “flessibilità” intendiamo una serie di provvedimenti legislativi che, in Italia come nel resto d’Europa, hanno rotto il tradizionale sistema del “posto fisso”, a tempo indeterminato, con garanzie forti, ma con un numero di assunzioni limitate, a favore di sistemi più snelli e con meno garanzie. L’imprenditore non è più costretto ad assumere “a vita” un lavoratore, ma può stipulare con lui una serie di contratti a seconda delle necessità. Tutto ciò ha in effetti aumentato l’offerta di lavoro, ma…ci sono state conseguenze impreviste. Secondo il “37° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese” i nuovi posti di lavoro che si creano non sarebbero di buona qualità. Infatti sono sempre meno autonomi (questo significa che il nostro mercato del lavoro non potrà contare più su questa forma di impiego come bacino di compensazione ), nascono grazie a qualche forma di sgravio contributivo ( il che rende più difficile poter godere d una pensione decente), non producono accumulazione di sapere e di competenze e soprattutto ha una durata temporale limitata. Una ricerca dell’Isae (l’Istituto di studi ed analisi economica ) mostra che- dati del giugno del 2004- circa l'11% degli occupati dell'industria è impiegata a tempo determinato, l'11% a tempo parziale. Confrontando questi dati con quelli emersi nelle inchieste del 1994 e del 1999, emerge un forte aumento dell'occupazione a tempo parziale (era il 2% in entrambe le precedenti rilevazioni) e determinato (quasi triplicata rispetto ai cinque anni precedenti, quando pari al 4%). Il part time è molto più diffuso tra le donne (16% del totale delle occupate); forme di lavoro temporaneo sono invece utilizzate in modo omogeneo per l'occupazione maschile e femminile. Insomma, lavoratori che già erano abbastanza penalizzati nel mercato del lavoro- le donne, i giovani alla prima occupazione, quelli con basso livello di specializzazione- ora sono meno tutelati e l’occupazione che viene loro offerta è precaria, o come si dice oggi “atipico”. E non si salvano le Pubbliche Amministrazioni: anche gli Enti pubblici preferiscono assumere con contratti di questo tipo, perché il risparmio per le casse dello Stato è notevole. A prima vista i datori di lavoro risparmiano. Gli atipici però sono dei consumatori un po’ particolari: evitano di consumare! Detto in maniera più scientifica significa che chi ha un lavoro precario, cerca di rimandare il più possibile acquisti importanti (la casa, l’auto, l’arredamento) e di limitare quelli effimeri (viaggi, divertimento, accessori, ecc.) per risparmiare in vista di un possibile licenziamento. In questo modo si “tesaurizza” una parte del PIL, cioè soldi che potrebbero essere spesi per rilanciare e sostenere le nostre imprese, rimangono fermi e non producono altra ricchezza.

Qui “Terronia” city

Un effetto positivo c’è: nel terzo trimestre del 2004 la disoccupazione è scesa al 7,4%, sei decimi di punto in meno rispetto alla precedente rilevazione. In base ai Istat, un tasso di disoccupazione così basso non si vedeva da circa un trentennio. Attenzione però a leggere fra le righe: anche questo dato mostra un fenomeno inquietante. Ricordate i viaggi della speranza degli anni Cinquanta dei “Terroni” verso le città del Nord Italia…? Il calo della disoccupazione è dovuto esclusivamente alla riduzione delle forze lavoro nel Mezzogiorno (-95.000) mentre al Nord (+38.000) e al Centro (+13.000) l'aggregato risulta in aumento. Il punto è che un tempo si trasferivano per lavorare in fabbrica i contadini poveri, con molte bocche da sfamare e senza istruzione, oggi sono costretti ad emigrare giovani laureati, molti dei quali accettano poi di fare qualsiasi lavoro, “sprecando” la loro laurea. Sempre secondo l'Istat i dati sarebbero influenzati da un altro fenomeno: al Sud nelle fasce dei più giovani e delle donne si è in molti caso rinunciato alla ricerca attiva di un impiego, quindi non ci si iscrive più negli uffici del lavoro.

Matto come…un disoccupato

Del mondo dei senza- lavoro si è anche occupata la psicologia e la sociologia, arrivando a risultati simili. Non avere un’occupazione, o averne una di cattiva qualità, crea delle vistose conseguenze. A livello psicologico si giungerebbe ad una specie di psicosi del lavoro, con stati ansiosi e depressivi, con la perdita di fiducia in sé. Da un punto di vista sociale, i disoccupati tendono a creare dei “ghetti”: non riescono ad instaurare amicizie con persone che hanno lavoro, quindi le loro possibilità di trovare occupazione diventano minori. Sarebbero inoltre soggetti a più malattie, più divorzi e si prestano con più facilità tanto a piccoli crimini, quanto ad appoggiare movimenti politici estremisti.

Flessibilità all’italiana

Dov’è il trucco? Non ci avevano forse detto che la flessibilità ci avrebbe aiutato?
Il problema è molto complesso ma qualche aspetto si può correggere: la flessibilità non dovrebbe riguardare principalmente i lavoratori marginali, come avviene da noi, ma piuttosto quelli qualificati e molto richiesti (i manager, i grandi consulenti), più o meno come succede per i medici e i direttori delle nostre Ausl. Le fasce deboli, inoltre, dovrebbero essere riqualificate con apposita formazione professionale ( di cui di certo non possono occuparsi solo le imprese), altrimenti sono destinate ad essere sempre soppiantate da qualche nuova tecnologia. Per chi invece si trova nella difficile condizione di non avere lavoro la parola d’ordine è “specializzarsi”, ossia acquisire delle competenze precise, saper fare qualcosa, e magari scegliere la branca giusta dopo aver osservato le aziende che ci sono sul proprio territorio. La scuola, l’Università ed anche parte della formazione professionale sfornano ancora “tuttologi” che nessuna impresa sa, o vuole, collocare.